Si tratta della patologia più comune della spalla. Ecco cosa fare.
La spalla è la più mobile di tutte le articolazioni del corpo umano. Possiede tre gradi di libertà, che le permettono di orientare l’arto superiore nei tre piani dello spazio e di eseguire movimenti di flessione, estensione, abduzione-adduzione, intrarotazione – extrarotazione. Tra tutte le varie patologie e sindromi che possono interessare la spalla, in questo articolo andremo a parlare della capsulite adesiva (spalla congelata) chiamata anche frozen shoulder syndrome che colpisce la capsula articolare. Il primo sintomo che possiamo identificare oltre al dolore è la rigidità; infatti alcuni studi hanno identificato che in questa sindrome la rigidità è data da una restrizione capsulare generale così come la perdita di movimenti fisiologici è pressoché su tutti i piani. Tutto questo ha dei riscontri sull’attività lavorativa, sulla partecipazione sportiva e sociale causando talvolta la perdita delle funzioni più elementari come potersi pettinare. La capsulite adesiva viene classificata in due categorie: capsulite adesiva primaria la cui causa è sconosciuta, o secondaria (causa di traumi o successive immobilizzazioni). Ciò che caratterizza la capsulite adesiva primaria sono diminuzione del volume capsulare, adesione della borsa subacromiale, ispessimento e fibrosi dell’ intervallo dei rotatori e ispessimento del tendine del muscolosottoscapolare. È importante distinguere le tre fasi di questa sindrome perché per ogni fase corrisponde un trattamento fisioterapico diverso: nella prima fase possiamo ritrovare infiammazione dell’ articolazione gleno-omerale con presenza di dolore nel mid-range; questa fase ha una durata di circa 3 – 9 mesi ed è caratterizzata soprattutto da dolore; la seconda fase, detta anche di “congelamento”, ha una durata di 4 – 12 mesi e a causa del dolore il movimento inizia ad essere limitato e questo porta ad un disuso muscolare dei muscoli dell’artosuperiore, la terza fase ha una durata di 12 – 42 mesi, chiamata di “scongelamento”, ha inizio quando la rigidità scompare progressivamente e quindi il movimento inizia a migliorare. Per quanto riguarda il trattamento alcuni studi hanno evidenziato che si ottengono risultati positivi facendo intraprendere al paziente un progetto riabilitativo basato su alcune terapie fisiche e mobilizzazioni senza provocare dolore abbinate ad esercizi terapeutici; infatti gli obiettivi nella prima fase sono quelli di interrompere l’infiammazione e diminuire il dolore con la terapia fisica (laser, tecar, ecc…) e ripristinare il corretto ritmo scapolo omerale con movimenti passivi e assistiti senza provocare dolore. Nella seconda fase, invece, gli obbiettivi primari consistono nel ridurre le aderenze capsulari e lavorare sulla restrizione di movimento, senza mai tralasciare il dolore e l’infiammazione; in questa fase il paziente può iniziare a svolgere esercizi attivi che permettono di diminuire il deficit di mobilità e di forza. Nell’ultima fase l’attenzione sarà posta sul recupero completo del movimento e sulla correzione della meccanica scapolare alterata. Le tecniche di stretching capsulare devono essere il cardine della terapia per questa fase e se il movimento migliora allora saranno aggiunti esercizi di rinforzo dei muscoli scapolari e della cuffia dei rotatori. In conclusione è importante sapere che questa patologia è di difficile gestione e che quindi è fondamentale la compliance del paziente, perché l’esercizio diviene un punto fondamentale per il successo terapeutico e sarà compito del terapista far capire l’importanza del trattamento e la durata della patologia, durante tutte le fasi.
Simone Francesconi